Valerio Mannucci: dalla fisica all’AI. “Ecco come cambia il mondo del lavoro”
Stefano Melli
Dopo le interviste ai freelance pubblicate negli ultimi mesi, abbiamo ascoltato un professionista dell’intelligenza artificiale, un AI Developer, senza partita iva. Se ti chiedi il motivo di questo crossover, ecco la spiegazione: chi meglio di un esperto di AI può raccontare come sta evolvendo questa scienza e tutti i tool ad essa legata, nonché le professioni digitali?
Ed eccoci quindi con Valerio Mannucci, romano, laureato in Fisica alla Sapienza. “Conoscere la fisica significa conoscere il mondo – ci racconta Mannucci -, così come le regole che lo governano”. Dopo la triennale, ha proseguito gli studi scegliendo l’indirizzo Materia Condensata: “c’era la possibilità di scegliere diversi esami – continua -, così ho puntato sul machine learning e l’intelligenza artificiale grazie a corsi come Quantum Information o Deep Learning Applied to Artificial Intelligence, al fine di poter padroneggiare gli strumenti teorici su cui si fonda l’AI”.
Mannucci parla dell’intelligenza artificiale come una “scienza giovane in cui si può ancora partecipare alla ricerca in maniera attiva, in continua evoluzione giorno per giorno”.
“Esiste la possibilità di partecipare alla creazione e allo sviluppo di una di quelle novità che rivoluzioneranno il mondo in diversi settori – spiega -, da quelli lavorativi a quelli quotidiani”.
“Ci troviamo nello stesso periodo in cui Turing costruiva il primo computer, Meucci ragionava sul termine ‘telettrofono’ e Edison brevetta la lampadina”
Nel periodo del Covid Mannucci approfondisce il linguaggio di programmazione di Python, al punto da scrivere una guida introduttiva a questo linguaggio di programmazione, proprio quello che utilizza per creare applicazioni di machine learning che spaziano da semplici modelli introduttivi fino ad architetture più avveniristiche.
Questa passione e questi sforzi lo portano a ricevere un’offerta per un dottorato di ricerca, che rifiuta in quanto sentiva “la necessità di mettere mano a qualcosa di concreto, che portasse quanto studiato nella realtà di tutti i giorni”.
Dopo un paio di esperienze lavorative approda in Joinrs, una startup dedicata al mondo della ricerca del lavoro e che ha come mission aiutare i neo-laureati a trovare il percorso professionale migliore. Qui sviluppa un modello di AI che analizza e rielabora gli annunci di lavoro al posto degli utenti e permette loro di fruire degli annunci in ordine di pertinenza, visualizzandoli in maniera innovativa e customizzata sulla singola persona.
È vero che l’intelligenza artificiale toglie lavoro alle persone?
“In alcuni casi è vero, esistono tantissimi tool basati su modelli generativi che in prospettiva potranno sostituire professionalità operative. Ad oggi non è possibile, ma secondo me non siamo così lontani da produrre software accurati al punto da avere output al livello di quelli realizzati da professionisti, o addirittura migliori. Mi spingo oltre: tutto questo potrebbe essere realtà in 5 anni, basti pensare che i primi paper sulle tecnologie oggi disponibili sono stati pubblicati solamente 5 anni fa.
Tuttavia, esiste una pseudocultura diffusa che vede l’intelligenza artificiale come qualcosa di maligno che mette in allarme le persone. È vero che esistono professioni più a rischio, ma la chiave potrebbe essere quella di imparare a collaborare con l’AI per abbattere i tempi legati a mansioni meccaniche e dedicarsi di più all’elaborazione originale delle idee, attuale punto debole dei nostri colleghi artificiali.
Ad oggi è possibile strutturare intere APP con un semplice prompt, cosa che accelera incredibilmente la realizzazione di un codice come quello richiesto da un’applicazione. E questo si può fare in linguaggio naturale, i prompt sono scritti esattamente come se si scrivesse il brief all’app developer incaricato alla realizzazione del progetto.
Per rispondere alla domanda, direi che le persone che rischiano di perdere il lavoro sono coloro che non hanno intenzione di imparare a cogliere l’occasione che offre l’intelligenza artificiale. Si tratta di una rivoluzione tecnologica come altre avvenute in passato, in cui viene richiesto di imparare a padroneggiare il futuro”.
Chi per te è più a rischio?
Il settore più a rischio è sicuramente quello creativo: esistono tool performanti in grado di creare contenuti testuali o visivi di livello molto accurato. Ad oggi è quasi sempre necessario l’intervento umano per ottimizzare gli output, ma il miglioramento è davvero rapido.
A essere davvero a rischio è colui che fa il lavoro meramente operativo e che, fondamentalmente, vive il paragone con l’AI: come un copy riceve un brief e scrive un testo, così l’AI riceve un prompt e ne genera uno. Tra l’altro, sempre meglio.
In quest’ottica il consiglio che mi sento di dare è quello di rendere la propria scrittura e la propria professione qualcosa di unico, in grado di raccontare con un personale tone of voice qualcosa che possa suscitare emozioni. A quel punto il servizio del copy non sarà la comunicazione tramite testi, bensì la generazione di sentimenti a partire da testi, affrontando l’intelligenza artificiale sul suo campo di battaglia dove ha, ad oggi, meno armi. ”
Quale può essere la chiave per un professionista per padroneggiare l’intelligenza artificiale?
“Rendersi conto del fatto che esistono dei ‘player’ sul mercato con cui non si può combattere, ma con cui ci si può alleare. Ci si può reinventare, si può essere in grado di sfruttarli fino a che il loro utilizzo diventi una professione specifica. È il momento di studiare lo strumento, ma non ancora quello di farci affidamento al 100%, quindi il tempo è dalla parte dei professionisti.
Ricordiamoci che esistono due variabili che sono ancora lontane dal mondo dell’AI e che posizionano i professionisti della creatività un passo avanti all’AI: il senso critico e l’empatia.
Il senso critico continua ad essere al centro della riuscita di un prodotto, specialmente in ambito creativo, così come l’empatia, quel sentimento che avvicina le persone alle persone, fattore determinante in diversi settori e difficilmente replicabile.
Detto questo, non escludo che un domani il senso critico e l’empatia possano essere implementati nell’AI: il modello è in continua evoluzione, quindi ogni informazione che viene data in pasto all’AI sarà un variante in più della sfumatura, fino a che la sfumatura stessa non avrà punti di contrasto. È altresì vero che si parla sempre di un risultato meccanico basato sulle possibilità del presente, probabilmente incapace di scegliere coraggiosamente strade da esplorare.
L’unica parte lontana è quella del sentimento umano, tutto il resto è davvero vicino”.
Può essere l’empatia, quindi, insieme al senso critico, il limite dell’AI che permetta alle persone di non perdere l’attuale posizione di vantaggio nel mondo del lavoro?
“Assolutamente. Direi l’intuizione, il coraggio di scegliere una strada diversa, non convenzionale. Il disruptive nel senso più largo del termine. Questa è la cosa più difficile che si può raggiungere con un modello di AI. Ci sono attualmente dei trend che probabilmente nessuna delle AI odierne, con le capacità di oggi, avrebbe potuto prevedere, perché questi sono nati da intuizioni forti e decisioni coraggiose. Il già citato senso critico diventa fondamentale in questo ragionamento: la sensibilità nel leggere il quotidiano delle persone e la capacità di creare empatia con loro, così da fornirgli qualcosa di cui ancora non sanno di aver bisogno, ma che cominceranno ad apprezzare fin da subito.
Un’intelligenza artificiale che sia empatica è fantascienza, anche se lo scopo finale dell’AI è raggiungere quella che viene definita Artificial General Intelligence (AGI), ossia un agente intelligente in grado di apprendere, capire e realizzare un qualsiasi compito intellettuale che può essere svolto da un essere umano.
Parlare, vedere e ascoltare potrebbero essere già azioni meccanicamente realizzate, tuttavia credo sia improbabile che nei prossimi 20 anni venga implementata la sfera dei sentimenti, limitando di fatto la macchina ad imparare a fare solamente quello su cui è stata allenata. Potrebbe diventare lo strumento migliore per fare ciò che è ordinario, ma non sarà in grado di innovare e, nel momento in cui lo sarà, non è detto che quelle innovazioni possano essere statisticamente più vincenti rispetto a quelle derivanti dalle intuizioni umane.
Quali sono, invece, le professioni nuove legate allo sviluppo dell’intelligenza artificiale?
Ne direi due tra le più grandi: il prompt engineer e l’AI developer.
Il primo si occupa di scrivere in maniera accurata il prompt al modello, così da ottimizzarne l’output in funzione delle necessità. Le due cose fondamentali sono la quantità delle informazioni e la struttura con cui vengono inserite.
La seconda era già nata negli ultimi anni, ma in questo momento subisce ogni giorno molti cambiamenti: questo grazie alla possibilità che tutti gli sviluppatori hanno di partecipare attivamente alla rivoluzione sfruttando le innovazioni che vengono pubblicate ogni giorno e che sono quasi sempre open-source. Prima era necessario conoscere approfonditamente la matematica, la teoria di base e i framework con cui costruire i modelli, adesso con meno di 10 righe di codice si possono fare cose davvero notevoli.
Per parlare di novità, esiste anche una terza professione: il ‘labeller’, l’etichettatore, che viene sfruttato molto nel processo di RLHF – renfocement learning prompt human feedback, ndr-, famoso per aver reso ChatGPT quello che è. Questa figura ha il compito di mostrare al modello il comportamento di output desiderato e classificare diversi output per lo stesso prompt dal migliore al peggiore.”
Queste professioni secondo te possono essere avvicinate dal mondo freelance?
“Le professioni descritte in precedenza prevedono l’impiego su progetti articolati e che perdurano nel tempo, mai terminati e sempre in evoluzione. Quindi difficilmente possono essere sviluppati da freelance. Discorso diverso per la figura professionale del consulente, che può dare letture dei progetti stessi e indicare quali strade possono essere intraprese.
C’è da dire che i veri esperti, coloro che davvero ad oggi possono fare i consulenti, sono letteralmente placcati dalle grandi aziende che si assicurano i migliori profili per essere i primi nel proprio settore. Molto spesso sono ricercatori universitari e non è raro che loro , specialmente all’estero, aprano startup che nascono proprio dai progetti di ricerca. Quindi, direi che l’esperienza nell’AI sfocia più facilmente nell’imprenditoria piuttosto che nel mondo della consulenza freelance.”

Nello specifico come L’AI e di conseguenza la tua mansione ha contaminato il modo di lavorare della tua azienda?
“Sono in azienda da novembre del 2022 e ricordo che proprio in quel periodo si iniziava a ragionare su come l’intelligenza artificiale potesse essere applicata al prodotto che avevamo sviluppato. Volevamo cambiare il paradigma della ricerca del lavoro per supportare ancora di più i nostri utenti.
Chi l’ha detto che solo le aziende possono esprimere i requisiti per la ricerca del lavoro? Questa era la domanda che ci ronzava per la testa: la Joinrs AI nasce proprio come risposta.
Il modello di intelligenza artificiale, di cui mi occupo in prima persona, legge centinaia di annunci di lavoro al posto dell’utente e, tenendo conto delle preferenze precedentemente inserite e dei requisiti dall’azienda, classifica le opportunità di carriera in ordine di compatibilità, in funzione dei ruoli a cui aspira. Ogni offerta di lavoro ha uno score percentuale: un punteggio più alto indica una maggiore probabilità che l’opportunità di carriera sia adatta all’utente e che il suo profilo sia interessante per i recruiter dell’azienda.
Grazie al modello di AI che ho sviluppato, eliminiamo il noiosissimo “muro di testo” dagli annunci, il più delle volte scritto in “aziendalese”, e mettiamo subito in evidenza le informazioni chiave così l’utente potrà leggere molte più offerte in poco tempo e ne beneficerà anche in termini di consapevolezza e fiducia in vista della candidatura.”
Cosa consiglieresti a questo mondo?
“Imparare a programmare in Python: non è così impossibile come possa sembrare. In secondo luogo, mettere da subito mano su progetti reali. È importante capire la teoria, ma senza fare pratica è davvero difficile riuscire a padroneggiare le metriche dell’AI.
Esiste tantissimo materiale online che è accessibile a tutti, senza limiti di formazione o età. Se invece si ha la possibilità di scegliere un percorso di studi, ad oggi ci sono nuovi corsi universitari e master che si occupano proprio di questo, anche se il mio consiglio è quello di iniziare dalla fisica, percorso di studi che apre la mente a un pensiero critico e una approfondita conoscenza delle regole del mondo. Queste diventano un punto di partenza solido per iniziare un percorso nell’intelligenza artificiale, che prende spesso ispirazioni dalle regole della natura.”
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